Georgette Klein: Dai Diari
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L'appagamento è la cosa più noiosa che si possa immaginare 1930
Non son fatta per accontentarmi di poco 1938
Una vita di resistenza
Gisa Lang-Heyn
Affermazioni come queste, registrate nei diari, fanno pensare a volontà di cambiamento, coraggio e spirito d’avventura, a un essere umano che non ha intenzione di rassegnarsi di fronte ai limiti posti dalla propria condizione biografica. Ma questa donna, proveniente da una buona famiglia della Svizzera tedesca, era una tale persona? Questa Georgette Klein, nata a Winterthur nel 1893, era un'audace avventuriera, una delle prime femministe, una pioniera di nuovi ruoli per le donne?
Può averlo desiderato, ma, con il medesimo respiro e giocando sul proprio nome, lei stessa dice di sé: «Per troppo tempo sono sempre stata Georgette di poco coraggio» (1953), oppure «Mie spiccate peculiarità sono il pudore e la paura» (1934).1 Cosa si cela dietro questa descrizione contraddittoria? Quali episodi, quali vicissitudini, quali esperienze hanno portato a un autoritratto tanto discordante? La risposta o, per meglio dire, gli indizi sulle possibili ragioni si trovano nei suoi diari: in quei più di cento quaderni a righe e a quadretti, le cui pagine Georgette ha riempito con meticolosità quasi maniacale dal 1916 fino alla sua morte, nel 1963.
Pur avvertendo i possibili lettori che «Le annotazioni dei diari sono fatte per essere scritte, non per essere lette» (1946) o ancora che «Il diario è la raccolta dei vestiti logori dell'anima» (1943), in altri punti l'autrice dichiara con grande sicurezza: «Questo diario sta diventando sempre più chiaramente il mio testamento, nell'eventualità che non mi resti il tempo di fare qualcosa di meglio» (1955). In ogni caso Geo è certa che quest'autoriflessione scritta serva a compensare il rapporto mancato con persone affini: «Tracce del passaggio di una persona che non riesce ad integrarsi nella società» (1957).
In realtà la giovane Georgette era tutt'altro che sola o emarginata dalla società umana. Come se la contraddittorietà e la discordanza contenute nella propria descrizione si fossero manifestate anche nella vita esteriore.
I genitori
Nel 1893 ai coniugi Louise e Rodolfo Klein nasce una bambina. Forse il Signor direttore e la Signora moglie avrebbero meglio gradito un maschio, come lascia supporre la scelta del nome: George diventa appunto Georgette, che andava bene comunque in francese, poiché la madre Louise, nata Châtelain, era di famiglia giurassiana.
Come uno dei direttori della nota ditta Sulzer-macchinari di Winterthur, il padre poteva offrire alla propria famiglia una vita serena e agiata. Due anni dopo nasce, di nuovo, una bambina: questa volta l'atteso Marcel diventa una Marcelle e la speranza di un erede maschio sfuma definitivamente. La famiglia è ora al completo. Georgette, o Geo, come suole chiamarsi, è la figlia prediletta del padre, totalmente realizzato dal suo lavoro fuori dalle mura domestiche. Nel suo diario, Georgette riassume la ripartizione dei ruoli che regnava nella sua famiglia in una formula: «Pa era bloccato negli affari, Ma si fissava sulla casa» (1930).
Come emerge dalle poche e più tarde allusioni delle due sorelle, il matrimonio dei genitori non dev'essere stato proprio felice e la colpa di ciò viene attribuita alla madre. Quest'ultima sarebbe stata una donna priva di calore umano, ingessata in atteggiamenti sociali convenzionali, alla quale importava solo quello che avrebbe potuto dire la gente. Per questo motivo la madre non aveva la minima comprensione per i tentativi delle figlie di emanciparsi, abbandonando la tiepida comodità e l'apprensione della casa paterna.
Aveva ancora tollerato l'attività violinistica e le doti musicali, ma cercava di frenare qualsiasi aspirazione artistica che andasse oltre. Ormai trentasettenne, sua figlia scrive ancora nel proprio diario: «Devo tenere costantemente presente che mia madre non ha desiderato e fatto altro che provare a rendermi insicura» (1930). Sebbene qui le proprie insicurezze e paure siano attribuite con troppa facilità a un'onnipresente figura materna, il rapporto distorto con la propria madre sarà sempre un fattore determinante. Già solo il fatto che Georgette osi infine tagliare i suoi lunghi capelli, contro il volere della madre, per poi adottare, per il resto della vita, un taglio corto quasi maschile, di sua creazione, dimostra come l'influsso della madre fosse importante persino in aspetti del tutto esteriori.
Anche quando ha ormai superato da tempo la mezza età, l'autrice sostiene con ostinata sicurezza: «Non ho proprio niente in comune con mia madre» (1945).
Il padre invece è visto dall'autrice come un'anima gemella, nonostante il fatto che nemmeno tra di loro vi fosse un rapporto quotidiano e che per molti anni in seguito al suo matrimonio si interrompa anche con lui ogni contatto. La figlia si crede unita al padre da una «certa identità nella gracilità e nella mancanza di robustezza» (1945), che, in qualche modo, gli rimprovera. Nel suo diario Georgette riporta nei dettagli un episodio avvenuto sul lago di Lugano, dove la famiglia possedeva un motoscafo, con il quale facevano ogni tanto delle uscite.
Una volta, mentre erano al largo, era capitato un guasto al motore, a cui fu possibile porre rimedio solo dopo lunghe ore di attesa e con l'aiuto di uno sconosciuto in barca: la causa era semplicemente una leva messa in posizione errata. In seguito la figlia commenta nel proprio diario «Quello che punta da dietro, quello che grava su di me è la mancanza di virilità in mio padre, la mancanza di cognizione e sicurezza nelle cose più concrete della meccanica. Non prova mai ad analizzare la situazione... dovrebbe avere un figlio. Solo costui potrebbe rimpiazzarlo in modo tale da fargli credere di essere lui stesso ad agire e quindi senza umiliarlo» (1932). Georgette si vergogna del suo debole padre, ma allo stesso tempo è convinta della propria inferiorità, in quanto solo "figlia" femmina.
Se sia lei a voler predire questa “pecca” o se il comportamento del padre abbia effettivamente dato adito alla cosa non è semplice da stabilire. Vi sono, infatti, altri commenti nei suoi diari che descrivono il padre come un lavoratore affermato e uno stimato cittadino, che ha pagato il successo rinunciando ad ogni spontaneità, alla minima gioia di vivere. E lei, la figlia, crede di essere chiamata, quasi a sostituirlo, a vivere quella parte repressa della sua personalità: «Credo di dover pagare i debiti che PA ha contratto nei confronti della vita. Poiché quella che si è risvegliata in me e che vuole essere vissuta è tutta la sua vitalità soppressa» (1928).
Per l'“argomento genitori” l'autrice si serve principalmente della lingua francese che, grazie alla madre francofona, padroneggia, naturalmente, alla perfezione. E ciò che rivolge loro sono sempre rimproveri, critiche e qualche volta addirittura una rabbia disperata: «Che cosa sono i genitori? Un evento della tua vita. Perché la tua vita dovrebbe andare in rovina a causa di un unico evento?» (1930), «I genitori continuano a vivere come dei parassiti nelle anime dei loro figli» (1931). Con il padre la figlia si riconcilierà solo sul suo letto di morte, nel 1939. Il rapporto con la madre rimarrà fredda cortesia fino alla fine dei loro giorni.
Dovrà arrivare quasi ai 60 anni prima di riuscire a considerare i propri genitori con maggiore scioltezza e, magari, anche un po' meno ingiustamente. Darà loro atto, soprattutto, di aver permesso a entrambe le figlie di studiare, una cosa che nella prima parte del XX secolo non era per niente scontata. E guardando indietro riuscirà a mostrare loro anche una certa gratitudine per aver incoraggiato le sue spiccate doti musicali e per averle permesso di frequentare i corsi della scuola di arti applicate.
Che anche la propria mancanza di coraggio e la paura abbiano contribuito a bloccarla così a lungo nella dipendenza dai genitori lo capirà solo più tardi, in particolare quando penserà e ripenserà a quella storia che l'ha completamente scombussolata quando era una giovane studentessa: quella storia d'amore, che in verità tale non era, quella relazione (e anche questa non è la parola giusta) con un giovane uomo di nome Fritz Bodmer, che sarà nei suoi pensieri fino alla vecchiaia.
Fritz Bodmer
Georgette ha circa 20 anni quando conosce il coetaneo studente di linguistica. Per condizione familiare non rientrava certo tra i potenziali candidati a sposare la figlia del Direttore Klein e, in ogni caso, i genitori avevano immediatamente reagito con chiara disapprovazione. Eppure Georgette è affascinata da lui. Gli permette di essere il mentore spirituale che la introduce nel mondo, a lei sconosciuto, di una giustizia sociale universale, perché Fritz Bodmer è un socialista convinto.
La ragazza ammira la sua sicurezza intellettuale, il talento retorico, che invece a lei manca tanto, e, inoltre, lo ama. Disubbidendo al divieto dei genitori lo va a trovare nella sua tana di studente, si lascia istruire per ore e ore adorandolo. Quando però il giovane inizia a farle delle esplicite proposte di natura sessuale, lo respinge sbigottita e spaventata. Fritz, a sua volta, attratto da quella giovane Giovanna d'Arco degli ambienti "alti", prova a lungo a vincere la sua resistenza, ma un giorno è costretto a riconoscere la vanità dei suoi sforzi e si ritira deluso.
La separazione è per Georgette una catastrofe mentale da cui non si riprenderà mai del tutto: «La paura della sessualità è l'unica spiegazione al fallimento della relazione con Bodmer e con essa di tutta la mia vita, che da allora è stata solo un lavoro di rattoppo» (1945). Se all'età di 50 anni pensa ancora in questo modo, è evidente quanto fosse importante per lei quell'uomo. Lo aveva perso come possibile amante, ma, dopo un certo periodo, egli è disposto a concederle almeno l'amicizia, cedendo alle sue insistenze.
Il rapporto andrà avanti per ben dieci anni, fatto di saltuari incontri e intensi carteggi: lei rimane l'amante che si nega; lui si sente probabilmente lusingato dalla fedeltà e dall'affetto di lei, finché la cosa non inizia ad annoiarlo e decide di scomparire dalla sua vista. Georgette ha 31 anni: «Il periodo peggiore fu dopo il 1924, quando man mano stavo perdendo Bodmer sempre più e non sapevo che fare e questo durò per anni» (1951).
All'origine dell'insuccesso di questo rapporto vi sono sicuramente diverse ragioni. Innanzitutto c'era la famiglia conservatrice e attenta alle apparenze e anche l'educazione di quel tempo, avversa alla fisicità e alla sensualità. C'era però anche la sua paura e la sua sottomissione al compagno maschio, le cui doti intellettuali venivano viste come grandiose.
Non da ultimo l'atteggiamento di Georgette rivelava una certa asprezza e un'indipendenza che le impedivano di abbandonarsi all'abnegazione. Anche qui, in questa relazione amorosa così importante per lei, ritroviamo quelle contraddizioni caratteristiche della sua figura: era un'interlocutrice intellettuale brillante e allo stesso tempo una persona profondamente insicura.
La formazione
Georgette si laurea in germanistica all'Università di Zurigo e consegue il dottorato nel 1919. Quale tema della sua tesi aveva scelto la lirica di Ferdinand Freilingrath (1810-1876), uno dei poeti della "Giovane Germania" e un fedelissimo di Karl Marx. È facile presumere che la scelta del tema derivi dai suggerimenti di Fritz Bodmer e dalle conversazioni avute con lui. Freilingrath era stato un poeta attivo politicamente, il cui sentimento sociale trova espressione in tutte le sue opere.
Si opponeva alla dominante “Reazione” del tempo e abbracciava la classe dei lavoratori. Era stato perseguitato politicamente ed era scappato per sfuggire all'arresto, come il contemporaneo Heinrich Heine. Volendosi spingere oltre con la speculazione, si potrebbe vedere, nella scelta di un tema del genere, anche un affronto al padre che, in quanto direttore in una grande fabbrica di macchinari, stava dalla parte del “nemico”. Georgette rimarrà fedele al pensiero socialista per tutto l'arco della sua vita, seguendo lo sviluppo del bolscevismo nello studio diligente delle sue opere fondamentali e rinunciando per sé a ogni proprietà che non fosse essenziale per vivere.
L'esame orale finale del dottorato è vissuto dall'autrice come un disastro: «Pur conoscendo benissimo la risposta a ogni domanda, riuscivo a balbettare solo qualche parola e fu soltanto grazie alla benevolenza dell'esaminatore che potei lasciare la sala con un RITE [sufficiente]» (1930). La timidezza e l'inabilità nel parlare l'affliggeranno sino alla vecchiaia e ne spiegano la difficoltà ai contatti sociali spontanei. Il voto dell'esame rappresenta una catastrofe per la sua ambizione e per le aspettative che aveva nei propri confronti.
Sebbene insegnare le sarebbe piaciuto molto, la giovane non osa presentare la propria candidatura per un posto d'insegnante con un RITE. E così, conclusi gli studi, rimane a casa, dedicandosi in un primo tempo alle altre sue doti: la musica e le arti applicate. **foto 1068 foto Geo giovane
È curioso il fatto che Georgette si consideri un'artista e contemporaneamente abbia sempre l'impressione di dover trovare qualcosa come un lavoro “che si rispetti”: «Nella vita avrei dovuto raggiungere una posizione con grandi responsabilità sulle mie spalle. Così invece una parte troppo grande delle mie energie rimane insoddisfatta e continua a cercarsi intorno» (1930). Con la contraddittorietà che la distingue può allo stesso tempo affermare: «Mi piace troppo la vita, per volermi trincerare dietro a una professione» (1930).
L'artista non troverà mai un'attività sufficientemente redditizia da poter assicurare la propria esistenza e resterà sempre sulla soglia della povertà. Al compimento della maggiore età, sia lei che la sorella Marcelle avevano ricevuto un fondo risparmio di 10. 000 franchi ciascuna, una somma considerevole per l'epoca, ma nemmeno allora sufficiente per tutta la vita. Quando il padre muore, nel 1939, ci sarebbe da aspettarsi una parte dell'eredità del patrimonio di famiglia, ma Rudolph ha designato solo la moglie quale unica erede di un patrimonio ormai decimato negli anni Trenta.
Scegliere il tipo di professione adatto a figlie altolocate rappresenta una barriera insormontabile: «Gli altri ci chiedono come mai Marcelle ed io non abbiamo trovato dei lavori migliori, visto che sappiamo così tante cose. Ma è proprio il contrario: più uno sa e meno si adatta a un impiego». (1953). Anche Marcelle aveva conseguito una laurea (in storia), poi aveva lavorato per diversi anni come segretaria per un professore e in seguito come insegnante di lingue al penitenziario di Regensdorf.
Vuole condurre una vita senza alcuna proprietà e così abiterà sempre in una mansarda senza cucina né bagno (muore nel 1986). I libri saranno il suo unico lusso. Tra le persone più anziane c'è chi oggi si ricorda ancora di Marcelle dal fitto cespuglio di capelli grigi, che con espressione cordiale e un po' assente camminava per le strade del quartiere zurighese di Hottingen. Già durante la sua vita era considerata un'originale. Georgette ha quasi raggiunto l'età della pensione, quando arriva a stabilire le ragioni del fallimento suo e di sua sorella rispetto a una carriera professionale: «Marcelle ed io non possiamo trovare una sistemazione, perché siamo delle persone scomode, noi non aduliamo la borghesia con i suoi ideali comodi e duraturi". (1953)
Anche come artista di un certo successo, Georgette continuerà a cercare un lavoro per mantenersi. Dato che le piante l'hanno sempre interessata, all'età di 37 anni le viene l'idea di frequentare una scuola di giardinaggio e trascorre alcuni mesi a Estavayer-le-Lac nella Svizzera francese.
Il matrimonio
Papà Klein va in pensione nel 1930. Il domicilio principale viene spostato da Winterthur a Barbengo, un villaggio isolato nei pressi di Lugano, dove la famiglia possedeva, fin dal 1927, un prestigioso edificio padronale. L'anno prima, durante una gita solitaria per i terreni scoscesi nei dintorni del villaggio, Georgette si era lussata la caviglia in maniera talmente grave da non riuscire più a camminare per il dolore.
L'aveva trovata un abitante del posto, che l'aveva poi portata a casa sorreggendola: il soccorritore è Luigi Tentori con cui si sposerà qualche anno più tardi. Con questo matrimonio Georgette porta a compimento la rottura con i genitori e con le sue origini borghesi, sebbene nei rapporti sarà mantenuta una formale cortesia.
Se la storia con Fritz Bodmer e il confronto con le idee del socialismo si erano insediati in lei più che altro a livello intellettuale, questo matrimonio comporta conseguenze radicali. Amici e conoscenti cercano in ogni modo di capire perché una donna intelligente e di grande cultura come Georgette avesse deciso di prendere per compagno un contadino, un elettricista: un uomo che non aveva letto molti libri e, all'epoca del loro incontro, aveva già superato i quaranta.
Certamente non si era trattato di un colpo di fulmine per nessuno dei due. Anzi, Georgette afferma nel suo diario: «Che ho chiesto Luigi in sposo e in certo qual modo l'ho incastrato» (1930). L'autrice ha pur sempre già 38 anni e apparentemente è ancora vergine. La prima notte con Luigi viene celebrata in molte parti del diario: «Nel momento in cui ti impegni anche con il corpo, rompi l'ultimo guscio dell'Io.
La strada di tutti i doni passa per il corpo donato» (1930), o ancora: «La purificazione che attendo da questa estate giungerà, se saprò guardare all'unione di due corpi con la stessa adorazione che provo per la terra e per il sole, libera da ogni malizia. Se saprò cogliere appieno ciò, allora sarò anche libera da ogni paura» (1930). Il Monte Verità non è lontano geograficamente e nemmeno spiritualmente, ma non vi è traccia di un contatto tra di loro. Luigi, che la introduce nel nuovo mondo del corpo, è, da un lato, tratteggiato come quintessenza dell'uomo naturale, semplice, legato alla terra e incontaminato: «Quest'uomo non ha bisogno di parole come ponte: questa è la sua forza... In fin dei conti non desidero altro che la disinvoltura di Gin [forma abbreviata di Luigi]». e: «Andrò con l'uomo che non ha chiesto la mia mano. Aveva infatti tanto rispetto per l'ordine delle cose, che aspettava e basta» (1931).
Georgette continua ad essere critica nei confronti del matrimonio come istituzione, sia dal punto di vista individuale che generale: «Forse il matrimonio ci è così spesso insopportabile, perché l'unione monogama in generale non fa per noi.
Perché la donna, in effetti, già solo da un punto di vista di costituzione, non è in grado di sopportare la carica erotica dell'uomo, se non in pochi rari casi. Cosicché o l'uomo é costretto a contenersi o la donna finisce per stancarsi» (1930) e circa nello stesso periodo scrive a Luigi: «Ho sempre negli occhi il pensiero della grande indipendenza che c’è nel mio carattere e che resta contraria al matrimonio» (1930).
A questo punto si può già immaginare che non si tratterà di un matrimonio facile per nessuno dei due, anche se durerà fino alla morte di Luigi. «Il rischio di un matrimonio sta tutto nello scoprire se dietro all'amato si nasconda o meno anche un vero amico. Spesso ho sorpreso me stessa alla caccia di questo amico, di questo “poi”» (1932). Luigi non era la persona più indicata per questa figura di “amico”, per lo meno non se a questo termine si associa anche una certa condivisione di pensieri e azioni. Tuttavia, in un altro, più concreto senso, l'unione con Luigi Tentori si rivelerà un caso fortunato nella vita di Georgette. **foto 1103 e 1061 la coppia
Sciaredo
Non lontano dal paesino, circa duecento metri a sud del cimitero, un po' più in alto della vicina chiesa con il campanile, si erge una collinetta, uno dei costoni sud della Collina d'Oro. La collinetta e il terreno circostante appartenevano a Luigi Tentori che li aveva ereditati e che sulle strette terrazze coltivava le sue viti.
E su questo promontorio, che porta il nome di Sciaredo, Georgette Klein vuole abitare. Affascinata dalla magia del luogo, da cui non si intravvedeva nessun'altra casa e da dove lo sguardo poteva vagare in ogni direzione, inizia a disegnare dei piani per la casa dei suoi sogni. Piena d'animo e con disinvoltura progetta una struttura che definisce: «Il vestito fatto esattamente su misura per me».
La casa e il paesaggio circostante dovevano essere un tutt'uno e confondersi l'uno nell'altro: «Tutto il terreno attorno alla casa sarà come un grande giardino senza porte, senza siepi» (1932). Senza aver mai studiato architettura, senza una formazione in statica o in teoria dei materiali, si mette all'opera e, affidandosi soltanto alle proprie conoscenze artistiche e alle sue capacità, nel giro di pochi mesi da luglio 1932, la costruzione è completata, realizzata da Luigi (che ha esperienza di elettricista) con l'aiuto di un paio di operai del paese. Il materiale viene trasportato sulla collina con un carro trainato da cavalli.
Sciaredo (come sarà infine chiamata l'abitazione) diventa così una casa moderna nell'accezione più positiva del termine, conservando la firma inconfondibile della sua ostinata progettista. Georgette lavora con dedizione per anni, fino alla fine dei suoi giorni, alla sistemazione dei dintorni di Sciaredo.
Pianta delle palme, prepara un orto e sistema dei cespugli di rose su tutta la lunga strada per arrivare in cima alla collina. Quando, più avanti negli anni, non crederà più al proprio successo artistico, considererà la casa e i dintorni come il suo unico, vero lascito: «Sciared [in dialetto ticinese] è destinata a diventare la mia migliore espressione: non una poesia, non una scultura, bensì questo pezzo di terra». (1958). La storia della casa rimarrà indissolubilmente legata a quella della sua vita ben oltre la sua scomparsa.
Produzione artistica
Georgette vive, dunque, con Luigi a Sciaredo e i coniugi, così dissimili, cercano di far fronte alla vita di tutti i giorni: Luigi è impiegato come elettricista e nel tempo libero lavora alla vigna; Georgette produce tessuti e vestiti e intaglia presepi, burattini e rilievi, che affida a negozi di Lugano, Morcote e anche della cittadina bernese di Ligerz.
Ma l'artista desidera soprattutto sviluppare la propria tecnica di intaglio del legno e soddisfare così le sue esigenti aspettative. Sente in sé un forte legame tra l'arte e la personalità, come se l'affinare determinate tecniche potesse portare contemporaneamente a un ulteriore passo nello sviluppo personale: «La scultura è in un certo senso una correzione a me stessa, la costrizione in certi limiti». (1935).
Della sua opera non è quasi mai soddisfatta: «I miei lavori sembrano ancora così insicuri, come se non osassi prendere parte alla vita». (1937); continua a spingersi oltre, vorrebbe migliorare, saper fare di più: «Evidentemente sono forzata intimamente all'arte, perché è l'unico modo di vivere che offre un rinnovamento incessante». (1943). Attraverso il proprio lavoro artistico vorrebbe catturare il mondo, rappresentare quello che le sta cuore e trasmettere se stessa, non in senso individuale, ma quale membro di una comunità artistica che «decifra la natura attraverso l'intuizione».
E tuttavia, nei numerosi pensieri sul tema dell'arte e degli artisti, si ritrovano anche toni che lasciano intuire come dal proprio lavoro artistico Georgette si aspettasse addirittura la liberazione dalle proprie difficoltà e delusioni: «Probabilmente ciò che spinge all'arte è il tentativo di realizzare in lei ciò che ci si aspettava dalla vita e che non si è trovato». (1938), o ancora più chiaramente: «Oltre a sé stesso, l'artista deve liberare anche tutti quelli che si fanno avanti e lo richiedono». (1944).
Sono queste le aspettative che ha verso se stessa e la sua opera e però vive lontana da una comunità di interessi affini, senza incoraggiamento, senza un maestro, di cui sente la disperata mancanza soprattutto nell'intaglio del legno, dove ha sempre dubbi di manualità e di tecnica. Deve e vuole imparare tutto da sola. Ad eccezione di burattini e marionette, che nel frattempo si vendono molto bene, le manca quel successo che la possa spronare. *foto 1076 Agno e burattini
Il 25 novembre 1935 compare nel quotidiano Tagblatt una critica positiva sul suo lavoro, in seguito a un'esposizione di gruppo del museo d'arte di Winterthur: «Georgette Tentori-Klein ha intagliato un'originale figura di presepe e parecchie buone maschere in legno. La sua scultura ha acquisito visibilmente maggiore sicurezza». Queste righe si trovano su un foglietto ingiallito incollato nel diario.
Per dieci lunghi anni Georgette lavora a una serie di sculture in legno, intitolate «Madre e bambino», distruggendo in continuazione ciò che le sembra mal riuscito: «Piango nel vedermi condannata ad esprimermi attraverso la scultura che è tanto difficile, tanto difficile» (1952). All'inizio dell'unione con Luigi, essere madre e avere dei figli era un desiderio legato più che altro alle convenzioni.
Quando poi questo desiderio non si realizza e l'insorgere della menopausa vi pone fine in modo naturale, Geo appare sollevata. Nella vecchiaia sembra sicura: «Non ho mai desiderato avere dei figli... sarebbe stato l'inizio di incredibili incatenamenti e legami» (1953). Ma già nei primi anni di matrimonio si possono trovare degli indizi: «Forse quando avrò il dono di un bambino riderò forte. E quello sarà il primo segno della mia guarigione» (1932). Da un lato sembra qui risuonare ancora il rifiuto sessuale nei confronti di Fritz Bodmer; dall'altro avere un figlio da Luigi rappresenta per lei un segno concreto di emancipazione dai propri genitori.
Attraverso una “serie di prove” un po' distorta, Georgette accusa il padre di provare soddisfazione maligna e vendicativa, qualora non fosse nato nessun figlio dal matrimonio con Luigi, che i genitori non approvavano: «Quando il mio corpo non sarà più un involucro degno di afferrare una scarica di vita, allora mio padre darà il suo consenso [al matrimonio con Luigi], perché allora sarà compiuta la sua vendetta per la mia ribellione» (1930). Cinque anni più tardi la questione di avere figli o meno viene trattata piuttosto su un piano intellettuale: «Non vorrei avere dei figli. Le mie idee pedagogiche sono troppo avanti e li sbalzerei fuori dal loro tempo» (1935).
In linea con il pensiero socialista, l'artista crede che anche in questo ambito bisogna opporre all'ideale borghese della proprietà privata il bambino senza genitori, allevato per servire la futura umanità. In ultima analisi ritroviamo anche qui le contraddizioni che accompagnano tutta la sua vita.
Per lungo tempo l'artista è indecisa su quale disciplina artistica concentrarsi definitivamente. La scultura sostituisce le opere tessili degli esordi e Georgette si esercita costantemente al violino, studiando partiture impegnative.
Si cimenta anche in campo letterario, ma le tracce rimaste nei sui diari rivelano che fosse più a suo agio nel campo delle arti visive. A volte prova a spedirne un articolo a qualche quotidiano svizzero e ci rimane molto male, quando le torna indietro: «Mi chiedo come mai io reagisca tanto emotivamente a un articolo respinto... quando propongo a qualcuno delle statuette in legno, non reagisco così se non ne compera» (1935).
Dato che Luigi non si presta a compagno di discussione e di conversazione, che Marcelle vive a Zurigo e che, dopo il matrimonio, si interrompe ogni contatto cordiale con i genitori, scrivere rappresenta per l'artista anche un modo per sfuggire alla solitudine. Georgette scrive soprattutto i suoi diari, scambia lettere con alcuni amici e si cimenta in testi lirici.
In fondo, sa di non possedere un vero talento letterario, ma non può fare a meno di riprovarci in continuazione, quasi fosse costretta: «Scrivere è ciò che mi tormenta maggiormente, sebbene sia al contempo quello di cui ho più voglia» (1938); «Come nelle arti visive non sono in grado di rappresentare alcun movimento, così non sono nemmeno capace di scrivere delle storie» (1945). Si affligge con compiti per i quali, piena di insicurezza, non crede di essere all'altezza. Questo atteggiamento è presente in tutti i suoi sforzi artistici, anche se avrebbe tutte le ragioni di essere compiaciuta del proprio successo. Solo la sua casa la rende orgogliosa e, per una volta, pienamente soddisfatta del proprio lavoro.
Per quanto riguarda il suo diario, Georgette sa che si tratta di un'attività solitaria che funge in primo luogo da specchio per conoscere se stessa: «Ogni annotazione ha lo scopo di sollevare sempre di più nuova vita nella regione della coscienza» (1931). Dalla stesura di questi resoconti si aspetta anche una crescita delle proprie capacità e possibilità.
E tuttavia una volta afferma con profonda chiaroveggenza: «A tratti dalle mie annotazioni sembra che io voglia far strada a me stessa ma non ci riesca mai» (1944). Probabilmente Georgette pensa qui in particolare al lungo confronto con i libri che sta leggendo in quel momento. Almeno due volte la settimana si reca per qualche ora alla Biblioteca cantonale di Lugano e si immerge nella lettura di opere dei più svariati ambiti specialistici: politica, scienze naturali, filosofia, letteratura.
Non legge mai romanzi, è abbonata al quotidiano Neue Zürcher Zeitung. L'erudizione, vale a dire la conoscenza nel maggior numero possibile di ambiti, ha per lei sempre anche un aspetto morale, é considerata una condizione indispensabile a un'esistenza e a un'opera umana (ma anche il “talento naturale” di Luigi, pur nella sua diversità, viene fatto valere come una tale condizione). Per questa ragione l'artista desidera ripulire i suoi diari da tutto ciò che c'è di “privato”: «Bisogna che questo libro non senta mai l'odore di una persona, di un paese. Bisogna che sia semplicemente umano» (1938).
Per fortuna l'autrice non si è attenuta rigidamente a questa regola. Ad esempio, rileggendo annotazioni scritte in passato, Georgette annota: «Ogni due parole si legge “vita”, ogni tre “mondo”. Com'è sicuro, com'è innocuo, com'è non vincolante esprimersi con parole così generiche: a guardar bene non dice proprio niente» (1934), mentre un anno dopo si legge: «Permettere alla sfera personale di invadere un'opera destinata al pubblico è una debolezza, una mancanza di autocontrollo» (1935). I posteri devono ritenersi fortunati che Georgette non abbia mai raggiunto l'ultimo stadio di questa sua scala dei valori e quindi nei suoi diari possano incontrare una donna che dispera della propria contraddittorietà, ma che nonostante tutto non si arrende mai.
Nel settembre 1944 Georgette inizia a lavorare alacremente alla produzione di poesie. Ispirata, ne compone moltissime, alcune annotate nelle pagine dei diari mentre altre le troviamo nel suo lascito, scritte a macchina. Sei mesi più tardi, nel gennaio del 1945, questa abbondante produzione di poesia si interrompe improvvisamente. Nella produzione artistica di Georgette, c’erano già stati precedenti tentativi in ambito poetico nei suoi diari, dove aveva cercato di esprimere ciò che le stava più a cuore. Nel “Petit Recueil” troviamo suoi importanti pensieri sull’arte, sulla natura e sui suoi stati d’animo.
Dai diari capiamo che il periodo di più intensa produzione poetica dell’artista corrisponde a un momento di importante cambiamento fisico. Per Georgette l’inizio della menopausa non coincide solo con la perdita della fecondità e della possibilità di diventare madre ma anche con una liberazione ed un’apertura:
„Nous sommes comme le fruit mûr
detaché de la branche
et qui porte en soi
le germe d’une nouvelle vie“ settembre 1944.
Questa nuova libertà introduce anche il tema della propria finitezza. Nel preambolo al “Petit Recueil” scrive infatti: "Qui comincia la seconda parte della mia vita. E' posta sotto il segno della morte." La maggior parte del "Petit Recueil“ è in francese, la lingua madre di Georgette, quella della sua prima infanzia. Per questo non stupisce che siano palesi i riferimenti ai suoi “maestri”. Le immagini, le metafore, tutto riconduce ai simbolisti francesi: Rimbaud, Verlaine e anche Prévert:
Aube
La chouette fit un amour
De deux minutes dans l’aube;
L’étoile persévérait
Dans ma fenêtre bleue;
Une cloche traînaît au loin,
vacillement sur blafard,
un signal qui s’éteint.
Le poche poesie in tedesco sono del gennaio 1945 ed alcune hanno la guerra come tema. In questo caso Georgette si ispira a van Hoddis, Trakl, Heym:
Krieg
Die Schreie aus meinen Hüften sind verriegelt weitzu
Mond reimt auf Mord –
Die Zeit in meinem Gehirn hockt verdutzt,
schnellt auf und fällt zurück,
schwarze Möven schwärmen aus –
ratlos
So ist es:
es singt in mir
und ich kann es nicht einfangen
ich knete ton
und weiss nicht was wird
ich gehe ueber die huegel
und weiss nicht
ob ich morgen noch da bin.
Resta aperta la domanda se la produzione di Georgette sia un’abile imitazione di più famosi maestri, o se ci sia qualcosa di originale. Accenti suoi personali ci sono sempre quando lei "compone“ con le parole e si avvicina alla lingua da musicista, quale lei è. In questo caso riesce a comporre versi personalissimi ed originali. Una sua poesia indica proprio questo legame tra poesia e musica, anzi mostra come la poesia tragga origine dalla musica:
Le poème naît du son
il vient de loin
comme une trainée dans le cervau.
La poesia introduttiva al „ Petit Recueil „ suona come una “danse funèbre”. Le immagini schiette, il ritmo semplice, le pause che rallentano, il ritornello breve e pregnante. Tutto questo ci convince della musicalità del suo linguaggio:
C’est tout
Prends sous la pile des nappes
la grosse toile,
dépose mon corps –
c’est tout.
Prends garde, j’aurai peut-être froid –
que personne ne me touche –
pas d’enterrement.
Le flame,
C’est tout.
Et mes cendres: aux vents, à l’air, à l’eau…
pas de tombe,
c’est tout.
Un secondo momento della sua vita diventa importante per altre poesie: è il periodo della morte di Luigi e questa volta Georgette scrive in italiano, nel diario: 26.12.62
Cammino e porto dentro la morte
e sono piena d'ombra
e di mani di loro
che nelle mie visceri
s'annidano
mi copre d'un velo
tessuto dalla loro isteria
e tenta d'impadronirsi
di me.
Nella riga sotto a queste strofe scrive "ho vissuto 5 anni con dentro la morte di mio marito (5 anni prima che morisse)" e proprio su di lui scrive a più riprese altre poesie.
Avversità
Lo sforzo quotidiano di Georgette per cercare di trasformare le immagini interiori in sculture in legno, l'intenso esercizio al violino e le ampie letture sono continuamente ostacolati da difficoltà esterne e da qualche disgrazia. Dopo soli sei anni di matrimonio emergono in Luigi alcuni tratti depressivi. Nel 1940 perde il suo impiego di elettricista e le difficoltà finanziarie si accentuano. Spesso i coniugi soffrono il freddo nella bella casa e a volte Georgette non sa dove trovare i soldi per le prossime compere.
E' diventata nel frattempo rigorosamente vegetariana e cerca, per quanto possibile, di provvedere autonomamente al proprio sostentamento con l'orto. Lo scoppio della seconda guerra mondiale è un altro motivo di sconforto per Luigi, che, da soldato italiano, aveva vissuto la prima guerra mondiale. A causa dei nuovi bollettini di guerra il suo umore balza da sfoghi di rabbia a meditazioni introverse anche per giorni interi.
Georgette inizia ad avere paura di lui, chiedendosi quando gli insulti verbali si trasformeranno in violenza fisica. Ogni tanto Luigi si agita minacciosamente con il fucile da caccia in mano e una volta arriva a sparare nel camino. Le sorelle sono ricoverate all'Ospedale neuropsichiatrico di Mendrisio, mentre i due fratelli soffrono gravemente di alcolismo.
Per Georgette ha inizio un duro periodo di assistenza e di cure, «Luigi mi è di gran peso» (1945), che riesce ad accettare grazie ad un certo senso di colpa. Una volta che il marito la tormenta nuovamente con le proprie ossessioni (ormai vedeva nemici e pericoli ovunque), Georgette annota nel diario: «Anche dal punto di vista di Luigi non è giusto: si ritrova con un'intellettuale di cui non sa che fare e che non gli ha dato nessun figlio» (1946).
Ai problemi psichici si aggiungono malori fisici: Luigi è ricoverato in ospedale a causa di una meningite, in seguito alla quale avrà difficoltà a parlare, dovendo cercare in continuazione le parole e non riuscendo più ad articolare in modo chiaro. In seguito subisce diversi attacchi di cuore e ha inizio un estenuante alternarsi di ospedale e di cure domestiche. Un medico consiglia a Georgette di scaricare tutte le armi di Luigi e di procurarsi un revolver per difendersi. Lei rimane al fianco del marito con coraggio e spirito di dedizione. Alla sua morte, nel gennaio del 1955, Georgette avrà sacrificato più di dieci anni della propria vita per questa unione: «Un giorno questo periodo [ovvero la malattia e la morte di Luigi] mi sembrerà come se avessi passato cinque, dieci anni chiusa in un frigorifero» (1954).
Poche settimane prima della scomparsa di Luigi, l'autrice stila un bilancio lucido e stranamente distaccato: «Non ho mai provato per L. T. [Luigi Tentori] quella che si dice una passione sentimentale. Egli è stato per me semplicemente una soluzione in un momento in cui non se ne presentavano delle altre» (novembre 1954). E quando, più in là negli anni, si volge a guardare ancora una volta questa unione così dissimile, c'è nel suo tono una nota di riconciliazione: «La cosa migliore che ho fatto: non ho mai cercato di elevarlo alla mia altezza» (1960).
Dopo la morte di Luigi, Georgette è, innanzitutto, sollevata. Con nuova gioia si gode Sciaredo, che ora abita da sola: «Quando ho sposato Luigi, ho cercato la sua collaborazione per mantenere questa casa. Questa casa è ora il punto di partenza; da lei voglio trarre il meglio per il mio sviluppo conclusivo» (1955), «La mia casa non mi sta troppo grande. Ho bisogno di spazio intorno a me e non ho difficoltà a riempirlo. Solo un uomo tanto modesto quanto Luigi poteva starci» (1956), «Questa casa piace alla gente perché è aperta e luminosa. Sarebbe un bene pensare di affittarla a degli artisti dopo la mia morte» (1955), «Nelle mie stanze, diventate un tutt'uno tra loro, sono sparsi ovunque lavori iniziati e le singole componenti sono come unite da fili di ragnatela. Nessuno può entrare senza romperne qualcuna. Per questo la mia casa é inabitabile per altri» (1960), «Sarà più difficile dire addio a questa casa che alle persone» (1958).
La casa e i suoi dintorni sono per Georgette un organismo vivente, in cui si sente al sicuro e protetta. Armata di nuovo coraggio si rivolge all'arte sempre più convinta che, se si lavora con dedizione e con instancabile impegno, un'opera deve riuscire per forza.
Ma il suo passato la perseguita ancora una volta: «Oggi alle 9 1/4 ha telefonato Fritz Bodmer» (1 settembre 1955). Eccolo che emerge di nuovo, quell'uomo che aveva descritto in continuazione come la persona più importante della sua vita. I due si erano incontrati una volta, quando era già sposata con Luigi. In quell'occasione avevano dato la colpa del fallimento della loro relazione a fattori esterni: da socialisti convinti avevano accusato la differenza di classe e l'ideale borghese della proprietà.
Pare che Bodmer abbia detto «Sapevamo che la combinazione di fattori non funzionava, ma cercavamo l'errore in noi» a cui lei avrebbe replicato «Io stessa ho impiegato dieci anni della mia vita o più per capirlo» (1938). Il loro rapporto non si era mai interrotto del tutto. Georgette sapeva che Bodmer lavorava negli Stati Uniti come docente di lingue e di politologia: ogni tanto si erano scritti. La telefonata a sei mesi dalla scomparsa di Luigi giunge da Roma, dove Bodmer ora vive. Lei ammette di aver pubblicato sul giornale l'annuncio di morte di Luigi con il solo pensiero che Bodmer potesse eventualmente vederlo.
E lui viene a trovarla a Sciaredo: Georgette attende con impazienza di sentire il suo parere sulle sculture in legno, nelle quali ha investito tanta fatica. Con sua grande delusione Bodmer non dice una parola sul suo lavoro, spedendole invece in seguito continuamente immagini e fotografie delle sculture di altri artisti. Anche come artista Georgette rimane la donna in umile attesa. Di proposte erotiche o sessuali da parte dell'amico non ne vengono più: «Il nostro amore si è traslato in un rapporto spirituale» (1955), commenta Georgette dopo il primo nuovo incontro, chissà se con soddisfazione o con delusione.
Due anni dopo questa visita, nel 1957, Bodmer ha un colpo apoplettico a Roma, che gli pregiudica parecchio la capacità di parlare: lui stesso scrive in una lettera: «Una vite si è allentata nel cervello». Georgette nota un parallelo con la malattia di Luigi e vede in generale una somiglianza nel rapporto avuto con i due uomini più importanti della sua vita, nonostante tutte le differenze apparenti. Così come col passare degli anni si era allontanata da Luigi (in seguito descriverà la loro convivenza come un matrimonio apparente), allo stesso modo quando Bodmer si ammala e poi muore, lei è più sollevata che triste: «Quando F. B. è riapparso ho avuto un momento di entusiasmo. Ora che è scomparso di nuovo non mi manca. Non ha più influsso su di me» (1958).
Ultimi anni
Georgette si ritira ancora di più nella sua casa. Cancella tutte le tracce che le ricordano Luigi o Fritz Bodmer e, con un'ironica allusione alla fiaba della Bella addormentata, si dice finalmente liberata. L'attendono ancora tre anni di vita, che dedicherà totalmente al lavoro.
L'autrice cerca di organizzare le sue giornate nel modo più semplice possibile così da avere abbastanza tempo per l'attività creativa. Si dà degli obiettivi per la giornata: «Doccia, ginnastica, fare il piccolo bucato, spremere della frutta per un bicchiere di succo, annaffiare, dare da mangiare ai conigli, salire in terrazza e scegliere che lavoro fare» (1960).
Se si facesse una statistica sulla ricorrenza di determinati lemmi nel diario di Georgette, la parola LAVORO risulterebbe certamente la più utilizzata. L'etica zwingliniana del rendimento e la propria volontà di mostrare agli altri di valere qualcosa spingono Georgette, la costringono quasi, ad intraprendere sempre nuovi sforzi: «Nel lavoro prendiamo forma, grazie a lui diventiamo visibili, misurabili, criticabili agli occhi degli altri» (1940).
Raramente è soddisfatta di ciò che fa: «Comunque e sempre l'impressione di rendere troppo poco, perché il lavoro preparatorio, molto più voluminoso del risultato, non è considerato una prestazione, è ignorato» (1940). Questo «lavoro preparatorio» (come la scelta del pezzo di legno giusto per una scultura) le prende così tanto tempo, perché l'artista è sempre sola, può contare solo su sé stessa, non ha mai accanto una persona che l'aiuti o che la consigli. Un altro ostacolo alla sua attività creativa sembra essere la permanente mancanza di soldi: «Solo oggi mi rendo conto di come per molti anni per ogni cosa mi chiedevo se le mie finanze potessero permettersela.
E questo mi ha limitata moltissimo. Ero arrivata a tal punto che prendevo troppa poca stoffa o troppo poco legno per i miei lavori, mangiavo troppo poco, riscaldavo troppo poco...queste ristrettezze sono uno dei motivi del fiasco» (1956). Per ricaricare l'orologio del campanile vicino Georgette riceveva 30 centesimi, per dare lezioni di violino 1 franco.
Ma la difficoltà maggiore che l'artista deve superare nella sua attività creativa è (come lei stessa riconosce intuitivamente) il suo spiccato intellettualismo: «L'oggetto si scioglie mentre lavoro, perché ci rifletto fino ad ucciderlo» (1953). La prova più lampante sono i suoi diari, in cui giustifica ogni passaggio del proprio lavoro, pianificando e riflettendo su ogni mossa: «Ho dato un pessimo esame di dottorato poiché ero innamorata.
Con quella valutazione non ho osato accedere all'insegnamento. Le forze che si sono sprigionate hanno portato alla dedizione per l'arte, ma senza fiducia perché ero già tanto in ritardo. E così mi sono ritrovata ovunque solo a metà, mentre, guardando indietro, le possibilità erano parecchie» (1956). E' probabilmente troppo dura con sé stessa, come spesso le capita quando deve darsi una valutazione, ma una cosa è certa: Georgette non si arrende, non è tipo da rassegnarsi: «La creazione, il lavoro dell'artista è l'unica cosa che mantiene una persona giovane fino alla morte» (1949).
Un'attività a cui si dedica con meno tensione e più gioia rispetto ai lavori artistici è l'intaglio delle sue creazioni di legno. Nell'atelier a Sciaredo vi sono anche diverse stoffe ricercate e in parte da lei stessa tessute. Georgette ne fa dei capi di abbigliamento per sé, per Marcelle e per un paio di conoscenti. Lo stile bizzarro e privo di fronzoli della casa e dei mobili é usato anche nelle sue opere tessili. Per la moda dominante femminile non prova altro che disprezzo: «Non posso coprirmi di un abito confezionato. Mancano le tasche. Le maniche non permettono i movimenti necessari al lavoro.» (1950); «Anche un vestito è in grado di esprimere gioia e di comunicarla agli altri... quello che mi infastidiva di più era la riproduzione fatta con lo stampo, l'esagerata ricercatezza» (1937), «Il repentino cambiamento della moda femminile è un tributo alla poligamia del maschio» (1935)
Per l'artista disporre di vestiti adeguati fa parte di una vita compiuta, mentre la sottomissione ai dettami della moda è sintomo di paure e di meschinità. Quando cammina per Barbengo o per i vicoli di Lugano nei suoi abiti dal taglio ampio e comodo non passa certamente inosservata e provoca nella popolazione conservatrice ticinese qualche scossa di capo. Ma ormai il disadattamento alle convenzioni è il denominatore comune della sua condotta di vita.
Oltre alle arti figurative, nel lavoro che scandisce le giornate di Georgette rientra anche la dedizione alla musica. I tempi in cui brillava, nella prima fila a sinistra del direttore, nei concerti dell'orchestra di Winterthur, sono lungamente trascorsi. A Barbengo aveva dato di quando in quando lezioni private a un allievo, ma la pazienza necessaria a sopportare gli inciampi dei principianti non ha mai fatto per lei. Per un certo tempo aveva anche suonato in un trio, che però si era sciolto presto e così ora si trovava sola con il suo violino a Sciaredo: «A volte, nel pieno di un'esecuzione, mi capita di diventare molto triste, perché non c'è nessuno che possa goderne. Mi sembra un raccolto che non è stato fatto fruttare» (1938).
Georgette vede nella musica, un po' come nelle arti figurative, un modo per svilupparsi: «La musica è per me una messa a punto dell'equilibrio interiore... quello che altri ottengono pregando» (1954). Ora nella vecchiaia si sente finalmente libera, libera innanzitutto dalla pressione di dover avere successo, svincolata dall'approvazione altrui: «In verità fino a questo momento ho suonato piena di paura.
Solo ora suonare mi calma. Dev'essere perché si trattava di nozioni, perché non sono mai arrivata a fare musica partendo da me, dalle mie capacità» (1952). E tuttavia è consapevole del fatto che la musica e il suonare sono in fondo un fenomeno socievole e che nella sua solitudine ticinese sente la mancanza di un pubblico e di un accompagnamento.
Dopo la scomparsa di Luigi, Georgette mette in ordine i suoi spartiti e rimane colpita dalla loro quantità: «È straordinario quanto io abbia comprato, in gran parte suonato e lavorato... da cui chi altro può trarne profitto al di fuori di me?» (1955). I compositori che più apprezza sono Schumann e Bach, che rappresentano per lei due estremi. Di Schumann ammira la sua sconfinatezza, ritiene che sia: «arrivato al limite dell'inconsistenza permessa, senza uscire dal personaggio» (1931), mentre Bach «fa appello alla ragione e mai al sentimento.
È addirittura una cosa impossibile avvicinarglisi con sentimento» (1932). In questi giudizi e predilezione si rispecchia in buona parte l'essenza di Georgette artista. Della musica di Johann Sebastian Bach ammira l'intelligenza e la ragione, di cui lei stessa dispone abbondantemente. Solo che, in Georgette, l'intelletto e la forza creativa spesso si combattono, cosicché una gran parte dei suoi sforzi per realizzare qualcosa di duraturo falliscono a causa della contraddizione tra questi tratti.
Il fatto di non essere accompagnata quando suona il violino, ricorda a Georgette gli altri momenti di solitudine. La performance solista è una metafora della sua intera vita. Fondamentalmente è sempre stata sola, dopo la morte di Luigi diventa semplicemente più palese. La madre vive nei paraggi, ma i contatti con lei si limitano allo scambio di qualche cortesia. Marcelle viene in visita a Barbengo solo di rado. Ci sono poi Willem de Boer, il suo insegnante ai tempi del conservatorio, e una conoscente di nome Gilberte Schnider che incontra di quando in quando. L'ospite più ricorrente sulla collina è un giovane del villaggio, che la aiuta in giardino e a cui l'artista dà in cambio qualcosa di simile all'affetto materno.
Georgette si è rassegnata alla sua solitudine: «Non sono sola soltanto ora [come vedova] sono una persona che è sempre stata e sempre sarà sola. Non è una cosa che uno sceglie. È così e basta» (1955). Rimane fedele ai suoi diari: ogni sera fa un resoconto della giornata, riflette su quanto letto e fa nuovi piani sul da farsi. Ma i diari sono soprattutto «una seduta del processo sul proprio Io», come li ha definiti una volta Ibsen. In questo “tribunale” Georgette è sempre più dura con sé stessa, come mostrano alcuni esempi: «Quanto doveva essere grande la mia sete di vita, la mia vitalità, da riuscire a trovare tanta vita nella mancanza di vita reale, di cui invece non disponevo. Poi mi sono abituata a inventare e così la vita reale è scomparsa sempre più dalla vista» (1930); «Il mio unico errore è forse quello di essere troppo convinta e cosciente di dover lavorare su me stessa» (1934); «Ho sempre cercato degli scopi eccentrici, ideali, assai incerti per il mio operato, ma non sono mai riuscita a vedere l'obiettivo più vicino e utile nella mia vita: questo spiega perché fino ad oggi io non sia mai riuscita a provvedere da sola per me stessa» (1934); «Non sono mai stata capace di tirare fuori dalle persone ciò che poteva aiutarmi, ho sempre voluto fare tutto da sola dalla A alla Z» (1936); «Quando si tratta di reagire, di rispondere in fretta a qualcosa sono terribilmente impacciata» (1939); «Dato che la mia vita è un continuo sperimentare, avrei avuto bisogno di una maggiore dose di coraggio per guadagnarmi il prestigio. Osare di più. L'insicurezza non si accorda alla sperimentazione» (1940); «Posso desiderare quanto voglio di fare un bel viso. Non serve a nulla. Non riesco mai ad andare avanti e alla fine lo colpisco male di nuovo e ne faccio delle smorfie. Sono condannata a fracassare per tutta la vita?» (1940).
«C'è un tratto che si estende a tutta la mia vita: non mi sono mai resa le cose semplici» (1946); «Quando si è così dotati, ci si chiede per ogni cosa: non si può fare di meglio?» (1952); «Non per nulla negli ultimi anni ho sempre avuto l'impressione di non adempiere al mio dovere, di non essere all'altezza del mio compito. In breve: di non fare ciò a cui sono predestinata. E anche la paura di morire prima di aver fatto ciò che giustamente ci si aspetta da me» (1955); «Appartengo a una patria? Alle strettezze di una professione? Alle costrizioni di un'epoca presente? A una classe sociale? Niente affatto. Non posso essere catalogata da nessuna parte se non come semplice e completo essere umano» (1960).
Dopo la scomparsa di Luigi, Georgette riflette continuamente sulla propria morte, la propria fugacità. La vecchiaia non la spaventa: la considera come la fine naturale di ogni vita organica e crede che nell'anzianità l'essere umano diventi quello che era destinato ad essere in origine. Solo la paura di non riuscire a finire, di non raggiungere ciò a cui era predestinata, la tormenta e la spinge a sforzi sempre nuovi: «Prima di potersene rendere conto, ci si precipita nell'ultima fase della vita e poi non resta che convincersi che questa trascorrerà così lentamente da poterla gustare goccia per goccia» (1955).
E così negli ultimi anni Georgette si ritrova con sempre meno tempo e invidia i giovani che ne hanno ancora tanto davanti e attribuisce loro una maggiore facilità nell'affrontare la vita. Guardando indietro vede quanto tempo lei e la sua generazione hanno trascorso a «dare problemi» e come siano stati frenati nel proprio sviluppo dalla costante paura di «cadere nel peccato».
Di certo Georgette pensa soprattutto alle donne del suo tempo. Nei diari si trovano diversi giudizi negativi e severi sulle donne, troppo pigre o troppo codarde per evadere dal proprio recinto. Con lo stesso sguardo nitido riconosce però contemporaneamente le barriere politiche e sociali nonché le ingiustizie che avevano frenato le donne dal vivere una vita alla pari degli uomini.
Nel 1959 in Svizzera, il diritto di voto alle donne viene ancora una volta respinto: Georgette è profondamente delusa e sente riemergere l'antico clima opprimente. Personalmente non ha mai partecipato alla lotta del movimento femminile: vuole mantenere anche in questo ambito la propria autonomia o, più che altro, dopo aver consumato tante energie per conquistare la propria libertà, non gliene restano più per le altre. La solidarietà attiva non fa per lei: «La vita non mi ha offerto abbastanza da voler condividere con gli altri ciò che mi rimane una volta finito. No, ciò che resta è mio» (1959).
Quel «ciò che resta» è forse il periodo più felice della sua vita, per quanto Georgette sia stata in grado di essere felice. Trascorre molte ore nel suo amato giardino, la casa le offre un rifugio ideale e il grande atelier diviene il luogo di una creatività che non si esaurisce mai. Georgette sembra però avere il presentimento che non le resti più molto da vivere: fa testamento e nomina Marcelle esecutrice delle sue volontà.
Desidera che Sciaredo venga utilizzato un giorno quale dimora e luogo di lavoro temporaneo per giovani artisti. I suoi diari, che nel frattempo contano più di cento quaderni, devono rimanere in possesso di Marcelle. La morte è vista come un ultimo ostacolo da saltare: «Prenderla con il distacco necessario, non lasciarsi bloccare» (1960). Vuole rimanere quindi attiva anche in questo frangente, fare e non subire. Non ha paura di lasciare questo mondo, non se ne rammarica neppure: «Non mi sarà molto difficile distaccarmi dal mondo, considerando che non vi ho mai aderito bene» (1960). Si è sempre sentita come un'ospite sulla terra. Anche nel dare indicazioni su ciò che dovrà essere fatto del suo corpo, Georgette mantiene l'indipendenza e l'originalità che la caratterizzano: «Dò istruzione che le mie ceneri siano sparse sulla collina “cerretum”, non resisterei in un'urna.
Cosa posso fare di meglio che diventare fertilizzante per la mia terra" (1960). Ha persino scritto un'«Orazione funebre per me», una lode alla vita e un'esortazione ai posteri: «Ricordatevi “amici”: la vita è una trappola. Ci fa fare tutte le pazzie possibili: Continuate a ballare – io adesso faccio l'ultimo ballo con fuoco – la vita è come un teatro, continuate a recitare. Mi è piaciuta la vita, incoerente com'era. Ho visto tante cose, tante. Aprite gli occhi. Le vedrete anche voi. Tendete l'orecchio: ci sono un' infinità di voci: quelle della natura e quelle delle macchine. Direte con me: La vita è bella. Vale la pena di essere vissuta. Addio amici».
Senza essere malata si spegne nel settembre del 1963. La trovano agonizzante nel suo giardino, la causa della morte è probabilmente un ictus.