Rifflessioni sul opera
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“Con la parola o con il suono, nel legno o nella musica – non facciamo altro che scrivere le nuove fasi della nostra maturità”1
Georgette Tentori-Klein (GEO) è artefice di un’opera d’arte totale. La citazione da Michel de Montaigne (1533-1592) che troviamo nel diario del 1950 – “Mon métier + mon art c’est vivre” – corrisponde alla sua visione della compenetrazione fra vita, conoscenza e produzione creativa. Non è affatto semplice coglierne tutte le sfaccettature, giacché l’eccezionalità di questa donna colta, ricercatrice instancabile e artista di grande talento, non risiede tanto nei singoli aspetti della vita e dell’opera, bensì nel loro insieme.
Se ad esempio le note del violino che suonava quasi esclusivamente per se stessa sono andate irrimediabilmente perdute, i suoi diari ci catturano ancora oggi e attirano la nostra attenzione sul rapporto fra suoni e colori: “Il La maggiore sembra corrispondere al verde, il Do minore al rosso bordeaux o al viola, il Re maggiore al giallo…”, scrive il 3 maggio 1937. Se pensiamo con disappunto al fatto che non abbia mai dipinto, lei stessa ci rimanda a un “blu messo al posto sbagliato” nel progetto per un arazzo (1950), alle sue stoffe per vestiti o all’effetto dell’abbigliamento delle sue marionette e dei suoi burattini: “Più ci si circonda di colori e più si riesce a vibrare all’unisono con loro”.
Georgette tenta un parziale avvicinamento alle proprie forme espressive parlando di “4 états de conscience”, ma non senza aver prima affermato: “non ci si può stancare di ripetere: créer est un état de conscience – rendere conto a se stessi, non solo in generale, ma fin nelle più piccole cose”. Più concretamente: come la danza è la conferma del movimento proprio del corpo, la musica è la conferma del ritmo e del suono; la scultura è la zona di confine nello spazio e la poesia coglie ed eterna il riflesso di tutti e tre gli altri stati di coscienza.
Il presente saggio si propone tuttavia di esaminare nei dettagli i singoli aspetti dell’opera dell’artista, anche per mettere in relazione l’eloquenza del suo scrivere giornaliero – già un’espressione artistica in sé – con la materialità delle sue creazioni. Sulla differenza tra modellare la plastilina e lavorare con il legno, Georgette scrive: “bisogna avere molta capacità di giudizio per quel che riguarda gli stenogrammi modellati – in essi salvezza e disgrazia convivono in grande prossimità”. Lo stesso si può dire per l’interazione fra formulazione intellettuale, conoscenza teorica e traduzione pratica.
L’inizio della storia non è difficile da descrivere. La studentessa di germanistica Georgette Klein coltiva con grande bravura il proprio intelletto nel contesto accademico zurighese del primo decennio del Novecento, in gran parte dominato da uomini; nel frattempo però sente indebolirsi le mani, il cuore, l’intero corpo (su questo vedi il testo di Gisa Lang). La musica diventa per lei una via di fuga, che persegue con talento; il lavoro tessile è l'altra. All’inizio del secolo e per diversi decenni ancora, le attività tessili come il lavoro a maglia, il ricamo e il cucito erano considerate la base dell’istruzione e dell’educazione femminile. Georgette può pertanto ricorrere a ciò che ha già appreso e nel farlo rivela già un’indubbia vena artistica. Già nel 1919 – l’anno del suo dottorato – viene invitata a presentare i suoi lavori tessili al museo d’arte di Winterthur, inaugurato nel 1916, parallelamente alla “Weihnachtsausstellung der Winterthurer Künstler” (Mostra di Natale degli artisti di Winterthur). Le diciassette opere elencate nel catalogo includono un “Tappeto su sfondo nero”, un “Cuscino, blu”, una “Borsa, violetto e grigio”, una “Cintura”, una “Collana” ecc. A quanto pare ottiene un buon successo, visto che il circolo d’arte le affida l’incarico di progettare una tovaglia per il tavolo rotondo della Sala Anton Graff, dove il circolo tiene le sue sedute. Nasce così la “Tovaglia” di 118 x 120 cm – un’opera centrale della produzione artistica di Georgette.
A tale proposito, uno sguardo all’ambiente culturale della Winterthur dell’epoca può essere illuminante. L’industrializzazione aveva permesso alla città di raggiungere un elevato grado di benessere; tra le famiglie abbienti – come i Reinhart, gli Hahnloser, i Bühler – si era addirittura sviluppata una sorta di competizione in materia di mecenatismo e collezionismo d’arte. Oltre ad aver promosso la costruzione del museo, queste famiglie determinavano anche la sorte del circolo degli artisti. Figlia di Rodolfo Klein, direttore della “Sulzer”, Georgette era in pratica una di loro. Anche se non è documentato, è molto probabile che la stessa Hedy Hahnloser-Bühler2, pure attiva nell’artigianato artistico, si sia attivamente adoperata per promuovere la carriera della giovane collega. È anche probabile che Georgette Klein abbia avuto occasione di conoscere l’artista ginevrina Alice Bailly (1872-1938), o quantomeno le sue opere, in uno dei leggendari “caffè” organizzati dalla signora Hahnloser a Villa Flora. Infatti, la “Tovaglia” sopra citata presenta, nella sua dinamica libera e ornamentale, diverse somiglianze “pittoriche” con le opere di Bailly.
Eppure l’unicità formale della tovaglia ricamata da Georgette Klein ci pone oggi come ieri di fronte a un enigma. Un attento esame dell’originale, condotto da Lucia Angela Cavegn e Ursula Gerber3 nell’ottobre del 2013, ha suscitato nuova meraviglia ed entusiasmo. In quell’occasione si è parlato di una “corona di onde”, di un contenitore che si schiude, di un tappeto sonoro, di una nuvola, di un cosmogramma, di tonalità e dissonanza, di geometria e dissoluzione, ma anche di Ferdinand Hodler, Alice Bailly, František Kupka: l’intera palette della modernità scandita da forme e colori. Il cotone mercerizzato usato la tovaglia, con la sua ricca gamma cromatica, le fu probabilmente messa a disposizione da Richard Bühler, imprenditore dell’industria tessile e presidente del circolo d’arte.
Nel diario del 1920 non si trova purtroppo alcun accenno alla tovaglia, cosa di cui tuttavia non bisogna stupirsi, poiché i diari dal 1916 al 1929 sono disponibili solo nella versione riscritta e riassunta del 1930, il cui tema centrale è il confronto di Georgette con se stessa. Per fortuna esiste un album con alcune fotografie che mostrano come già da allora l’artista creasse anche cuscini, arazzi e tovaglie seguendo uno stile analogo, anche se non con la stessa ricchezza formale. Parallelamente scriveva poesie e continuava la formazione musicale al conservatorio.
L’abbandono di un linguaggio formale “barocco” è forse dovuto al suo avvicinamento alla Kunstgewerbeschule (Scuola dell’artigianato) di Zurigo, dove dal 1921 Georgette segue i corsi di Carl Fischer (1888-1987), scultore figurativo legato alla tradizione del primo Novecento. Questo artista esercita un forte influsso sui lavori in legno di Georgette Tentori-Klein. Conservatore nell’arte, Fischer era decisamente più “moderno” nel teatro delle marionette, che riscuoteva grande successo nella Zurigo d’inizio del secolo (vedi il testo di Hana Ribi). Sin dall’inizio Georgette si dedica con entusiasmo a questa forma d’arte che unisce l’aspetto figurativo a quello linguistico. Alla Kunstgewerbeschule incontra certamente anche Sophie Tauber e conosce le sue opere, che non negano in alcun modo la propria natura artigianale. Le dottrine del Bauhaus prevalgono anche alla scuola di artigianato: Georgette assorbe ogni stimolo che l’ambiente le offra. Poiché il ricamo non le sembra l’attività più appropriata, nel 1922 decide di partire per due o tre mesi alla volta di Weybridge nel sud dell’Inghilterra, dove sotto la guida di Elizabeth Peacock (1880-1969) si era insediata una nuova generazione di tessitrici. La successiva produzione di Georgette si focalizza così sulla tessitura. I pochi lavori e le rare foto giunti fino a noi mostrano la sua capacità di dominare – e di giocare – sia con il linguaggio geometrico-ornamentale, che con l’astrazione. Particolarmente evidente è il suo amore per la simmetria: molte opere hanno un asse centrale, in certi casi simile a un albero, dal quale si dipartono disegni floreali o che richiamano animali e figure umane, ma anche composizioni rigidamente geometriche. Giacché le fotografie sono in bianco e nero, per immaginarne i colori dobbiamo ricorrere alle annotazioni dell’artista.
Si legge per esempio: “sfondo: blu – margine: nero – frutti: rosso e giallo-oro”; oppure “nero su sfondo verde”. Mentre i pezzi precedenti inseriti nel lascito mostrano un cromatismo ridotto – spesso dominato da toni scuri, in altri casi più luminoso – i lavori tessili risalenti agli anni Venti, rinvenuti per caso nel deposito del museo Bellerive di Zurigo nel 20124, sono caratterizzati da colori chiari e brillanti.
Nel 1923 l’artista dispone di un proprio atelier nella città di Winterthur e prende seriamente in considerazione la possibilità di esporre le proprie opere, ad esempio alle mostre natalizie dei musei dell’artigianato di Winterthur e Zurigo, o a Parigi, come sembrano dimostrare alcune foto. In breve, negli anni Venti Georgette Klein è un’antesignana dell’arte tessile moderna in questa regione della Svizzera. La stessa “modernità” si riscontra nei suoi capi di abbigliamento. Il fascino per la danza rientra nel medesimo capitolo – le correnti artistiche nate sulla scia degli insegnamenti di Rudolf von Laban non le passarono certo accanto senza lasciar segno – e risulta che Georgette abbia più volte partecipato a seminari sull’argomento, mostrando grande interesse per l’interazione tra musica e movimento. Non bisogna dimenticare che suona già il violino al livello dell’orchestra sinfonica di Winterthur! A un’epoca successiva risalgono diversi disegni5 su questo tema, tra cui quelli su Jaques Dalcroze – il fondatore della moltiplicazione ritmica – e una dozzina di fogli su Ferdinand Hodler (La femme en extase, ad esempio).
Stimoli interessanti in materia di arredamento e architettura le vengono anche dal Werkbund (Lega dei lavoratori) svizzero. In questo caso la persona di riferimento è certamente l’architetto di Winterthur Robert Rittmeyer, il quale organizza mostre di design insieme a Hedy Hahnloser e ha un ruolo direttivo nel circolo d’arte. Georgette si dedica anche lei al design, producendo lampade in stile Bauhaus. Una posizione di rilievo assumono in questo periodo le maschere in legno del 1924, dipinte d’argento e marcatamente geometriche, che – come si legge a margine nell’album fotografico – potevano essere “indossate”. Ha intagliato lei stessa queste maschere o ha affidato l’incarico al tornitore che eseguiva i piedistalli delle sue lampade? Ad ogni modo, Georgette ama tanto queste maschere che nel 1932 le presenta, insieme ad altre, alla mostra da lei stessa organizzata al Kursaal di Lugano.
Ma è negli anni Venti che Georgette crea le sue opere più importanti nell’ambito dell’arte tessile e del design; a questo periodo risalgono anche le sue prime prove poetiche di un certo valore (ma questo merita un capitolo a sé). Per quanto riguarda il teatro dei burattini, sono anni preziosi di apprendistato, con alcuni primi successi (vedi il testo di Hana Ribi); nell’ambito della scultura su legno, Georgette acquisisce le competenze artigianali fondamentali per le creazioni future. Gli anni Venti sono anche quelli delle uniche apparizioni in pubblico come musicista e anche dei grandi viaggi in città europee come Parigi, Amsterdam, Anversa e altre ancora. Centinaia di cartoline e quaderni ricchi di annotazioni ne danno testimonianza.
Nel racconto, quella di Georgette sembra una storia di successo, in realtà si tratta di un percorso quanto mai ambivalente. L’artista ci appare come una personalità attiva che si presenta al pubblico e partecipa alla vita cittadina – alcune fotografie dell’album di famiglia mostrano ad esempio quanto le piacesse il carnevale. Eppure, nei suoi diari Georgette dipinge di sé un quadro completamente diverso, fatto di insicurezza e angoscia. Una simile dicotomia si può osservare anche nella sua opera. Mentre i lavori tessili e di design, in quanto forme d’artigianato, non sembrano causarle problemi, nella scultura su legno vede la strada per l’arte, che per lei è qualcosa di infinitamente grande, quasi irraggiungibile. Questa concezione dell’arte, in parte influenzata dagli ideali ottocenteschi, non ha tanto a che fare con la grandezza rappresentativa, ma si configura come ricerca esistenziale di quanto si manifesta nella facoltà gnoseologica dell’essere umano e che si rispecchia nell’arte. Tanto “moderna” si dimostra nell’ambito dell’artigianato, quanto legata alla tradizione ci appare nella scultura. È pur vero che nel corso degli anni anche in questo campo la sua tecnica fa grandi passi in avanti – fino alle opere dell’ultimo periodo, caratterizzate da un astrattismo che esprime le forze di crescita della natura. Ciò che tuttavia suscita il suo interesse iniziale per la scultura è unicamente l’essere umano e ciò che è inscritto nella complessità del suo volto: “… in realtà la rappresentazione dei volti è sufficiente, perché lì e solo lì – si trova lo spectrum mundi, il punto di incontro di tutte le sollecitazioni” (4 aprile 1945).
Viste in un’ottica attuale, queste considerazioni ci inducono a domandarci cosa pensasse di C.G. Jung, alle cui lezioni aveva avuto occasione di assistere negli anni Venti a Zurigo. Sorprendentemente, la “febbre junghiana” fa irruzione nella sua vita non prima del 1950, quando dovrà affrontare la malattia mentale del marito. Da quel momento le teorie junghiane la accompagneranno sempre e, insieme all’interesse per la tradizione del Lontano Oriente, porranno le basi epistemologiche della ricca e ampia opera degli ultimi anni. Prima d'allora, vale l'equazione GEO = EGO: l’idea – quasi compulsiva – di dover andare, da sola, per la propria via.
Nel tentativo di valutare e ripercorrere il processo artistico di Georgette Tentori-Klein ci si trova ripetutamente davanti a dei limiti, soprattutto perché ben pochi lavori del periodo che va dagli anni Venti agli anni Cinquanta sono giunti fino a noi e delle opere vendute raramente conosciamo l’ubicazione. In molti casi bisogna ricorrere alle fotografie degli originali e anche qui vi sono evidenti lacune per quel che riguarda il periodo che va dal 1940 circa alla seconda metà degli anni Cinquanta. Solo le ultime opere – vale a dire le sculture in legno eseguite tra il 1960 e il 1963 – sono quasi tutte disponibili.
Ad ogni modo, per quanto ne sappiamo, negli anni Venti Georgette produsse inizialmente ben poche sculture in legno – si tratta presumibilmente in gran parte di rilievi –, non ancora contraddistinte dalla “firma” particolare dell’artista. In primo piano, accanto ai lavori tessili, vi sono soprattutto le marionette, che hanno un ruolo importante nell’attività creativa di tutta la sua vita. Molto più tardi, nel 1951, un’annotazione sul diario ne spiega il motivo. In quel periodo, in cui si confronta intensamente con Molière, le era venuta un idea: “Rappresentare al Lyceum [il Lyceum-Club di Lugano] ogni anno, nel periodo di carnevale, una vecchia commedia… incredibile, quanto mi diverto – una possibilità di mettere tutti i miei talenti – scrittura letteraria, intaglio, preparazione dei costumi – in una cosa, il tutto entro un'unica agogica; riconciliare il tutto in una vita e farlo diventare vitale”.
E in un’altra annotazione: “I burattini mi sono necessari come compensazione perché danno a me, che ho sempre osservato troppo la vita, la possibilità di prolungarla” (21 gennaio 1945).
I burattini, dicevamo, sono molto importanti nella sua produzione artistica: attraverso di loro, GEO è in grado di liberarsi dalla pressione continua della ricerca di senso assegnando un ruolo a ciascuno di essi. Il loro campo d’azione non è quello del super-io, ma quello della società, della vita stessa. Oltre ai modelli letterari, in queste teste intagliate si rispecchiano anche le quotidiane riflessioni dell’artista. Nel corso della propria vita, GEO crea centinaia di burattini e marionette, senza mai farne due uguali. Alcuni sono più belli di altri, ma ognuno è una piccola opera d’arte, ognuno è preceduto da un intenso confronto con quello che la marionetta o il burattino devono esprimere. Da questo punto di vista le sue opere rientrano nella categoria dell’arte più che in quella dell’artigianato.
Un evento di grande importanza nella sua vita è il trasferimento, avvenuto alla fine del 1928, nel palazzo Triulzi – a Barbengo, in Ticino – acquistato dai suoi genitori nel 1927. Dopo un periodo di grandi soddisfazioni in veste di direttrice del teatro dei burattini alla “Saffa” di Berna, Georgette è decisa a stare lontana sia dai genitori che da Frederik Bodmer (vedi i testi di Lang e Macconi). Non può certo immaginare l’effetto di questo “strappo” emotivo sulla sua attività artistica. Priva degli stimoli diretti della cultura urbana e lasciata sola con se stessa, si pone l’obiettivo di sviluppare anche il più piccolo passo partendo unicamente da sé. “… la vita in città offre infinitamente più possibilità e più cose, ma in compenso anche molta zavorra… che ostacola il cammino” (25 aprile 1938).
All’inizio le cose vanno nel modo migliore. Stabilisce contatti con negozi di artigianato ad Ascona, a Lugano e nella regione del lago di Bienne; nel 1932 organizza una mostra al Kursaal di Lugano e continua comunque ad essere presente a Winterthur. I lavori tessili di questo periodo portano l’etichetta “Atelier GEO” e la sua offerta comprende anche pezzi scolpiti.
Grazie alla partenza per Barbengo, alla decisione di sposare Luigi Tentori e di vivere e lavorare secondo i propri ritmi (vedi il testo di Jachen Könz), gli anni Trenta sono un periodo interessante e produttivo. Georgette sostituisce gli stimoli della città con letture intense. Dalla “Neue Zürcher Zeitung”, come da ogni altro genere di rivista, ritaglia tutto ciò che le interessa –articoli su costumi, maschere, moda, sul tema della fisionomia, sulla sculture e sull’arte in generale, sul tema della Passione e della Madonna col Bambino, sulla rappresentazione degli angeli e la tradizione del presepe. Negli anni Cinquanta raccoglierà tutti questi ritagli, che si conservano ancora oggi come lei stessa li ha ordinati.
I ritagli danno conto del suo orientamento artistico negli anni Trenta e rivelano già a un primo sguardo come di GEO non cerchi il confronto con l’arte moderna, né con l'espressionismo né con il surrealismo. Si osserva piuttosto un interesse per lo sviluppo sociale, che negli anni Trenta, dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania, assume tratti marcatamente retrospettivi; vi è anche il chiaro influsso della formazione ricevuta all’università di Zurigo, che agli inizi del secolo si basava ancora sui pilastri dell’antichità classica. A ciò si aggiunga che in Ticino, luogo di ricezione importante per i lavori di GEO, queste tendenze erano ancora particolarmente marcate. Guardando indietro agli anni Trenta, Aldo Patocchi scrive: “Il Ticino era in una posizione di retroguardia dal punto di vista artistico, sia riguardo ai gusti del pubblico sia riguardo ai compiti, irrisolti, dell’arte”. Né gli artisti del nord che frequentavano Ascona e dintorni, né i futuristi italiani o la metafisica di un De Chirico erano stati in grado di far evolvere la scena artistica ticinese6.
Per quel che riguarda le sculture in legno eseguite da GEO negli anni Trenta, si può osservare come i confini fra arte e artigianato si confondano fino a scomparire. L’artista non analizza questo cambiamento in maniera esplicita nei diari, probabilmente perché non lo ritiene importante. Per lei tutto ciò è espressione di un progressivo “raffinamento”, termine che usa ripetutamente non in riferimento alla superficie, dove qualsiasi forma di lucidatura le era sospetta – “… una superficie liscia è – moralmente e artisticamente – il postulato borghese del volersi-sentire-al-sicuro” (30 giugno 1937). Lo scopo di Georgette era di promuovere la partecipazione: “L’arte non è affatto qualcosa di compiuto, è un oggetto del pensiero”, scrive.
Due temi, o meglio due filoni tematici, rivestono un ruolo centrale. In primo luogo il presepe, che l’artista, seguendo la tradizione siciliana, rappresenta come l’effettivo raduno della Sacra Famiglia con i re magi, i pastori, gli animali, i musicanti (maschi e femmine), e talvolta anche con i portatori di candele, anche loro di entrambi i sessi. Georgette ricavava ogni figura o gruppo di figure intagliandole con cura nella plastilina, per poi trasporre la forma nel legno. Purtroppo non conosciamo l’ubicazione di nessuna delle sue composizioni; solo alcune fotografie di qualità mediocre e di piccolo formato ritraggono questi presepi, di un’altezza compresa fra i 30 e i 35 cm e di larghezza variabile. Erano tutti diversi l'uno dall'altro, e anche se dal punto di vista della fattura vi sono alcune tematiche ricorrenti, non vi è nulla che faccia pensare a una forma di “produzione in serie”. Il Bambino ad esempio è inserito, insieme al bue e all’asinello, in una nicchia con dei rilievi simili a raggi di luce – GEO nei diari accenna al suo amore per l’interazione di forme concave e convesse –; oppure emerge dal legno come figura singola o, ancora una volta in compagnia del bue e dell’asinello, giace nella culla intagliata in un tronco. Anche i re magi sono espressioni di caratteri diversi. È evidente come l’artista non voglia tanto realizzare una rappresentazione religiosa, quanto piuttosto comporre l'insieme dei personaggi come in una sorta di palcoscenico teatrale. Allo stesso tempo i presepi erano, evidentemente, anche oggetti commerciali.
Il secondo tema rilevante degli anni Trenta (e oltre) è il volto femminile, più raramente il busto, spesso nel gruppo madre-figlio, chiaramente improntato alla tradizione della Madonna col Bambino – sia nei raccoglitori che nei diari è menzionata la celebre Madonna col Bambino di Raffaello. In una didascalia l’autrice accenna anche a un’altra fonte di ispirazione: una “Maternità” raffigurata sulla facciata di un vecchio palazzo a Cassina d’Agno. È sorprendente, in questo come in altri casi, l’assoluta assenza di schizzi; GEO opera direttamente sul blocco di legno, collocandolo nelle posizioni più diverse sul tavolo e lavorandolo da tutti i lati. Questo modo di procedere rivela quanto la tridimensionalità fosse importante per lei: l’osservazione e la lavorazione del legno da ogni lato corrispondeva al suo modo di pensare e di indagare l’essere umano. Nei diari insiste più volte sulla “povertà” della pittura, imprigionata nelle due dimensioni. Scrive ad esempio il 17 gennaio 1945: “… les sculpteurs sont plus fort de vitalité que les peintres”. Non di rado, tuttavia, rinuncia a lavorare il legno da ogni lato e fa emergere le sue teste dal fondo del blocco, posto in verticale. Il materiale che utilizza non viene scelto in base alla tipologia, anche se in certe didascalie si possono trovare riferimenti al tiglio e al gelso. Allo stesso modo troviamo soltanto sporadiche indicazione delle misure, che variano tra i 25 e 45 centimetri d’altezza.
Il rapporto tra la madre e il bambino viene rappresentato nei modi più disparati. A volte i due volgono lo sguardo all’osservatore; in altri casi i volti, rivolti l'uno verso l’altro, sono colti nell’intimità del bacio; in altri ancora la madre, ritratta a mezza figura, tiene in braccio il bambino. In quest’ultimo caso è particolarmente notevole la grandezza delle mani, caratteristica ricorrente e importante dell’arte di GEO, sia dal punto di vista del contenuto che della forma.
L’artista esegue anche busti e teste femminili. Anche qui stupisce e affascina il fatto, che ogni testa, di fronte o di lato che sia, è un individuo, anche se non in senso naturalistico. Lei stessa parla spesso di questo pezzi come di “ritratti”, sicuramente eseguiti sulla base dell’osservazione, ma il fattore davvero determinante è il lavoro sul legno.
Dal punto di vista stilistico si constata l’influenza delle opere di Ernst Barlach7 e Wilhelm Lehmbruck. A livello formale soprattutto Barlach le insegna la riduzione all’essenziale. Scrive GEO nel 1937: “La riduzione a ciò che è artisticamente utilizzabile non risiede nella stilizzazione della realtà, cioè nella costrizione in forme geometriche o in qualche altro principio di irrigidimento… bensì semplicemente nell’omettere il superfluo”. Nel diario scrive diffusamente del modo in cui Barlach tratta le pieghe, utilizzandole come mezzo compositivo. Da Lehmbruck, Georgette riprende invece la poesia dell’espressione. Se in Barlach la violenza psicologica della guerra appare la principale forza motrice, in Lehmbruck predomina una visione tendenzialmente introversa, silenziosa e gentile dell’esistenza. Mentre Barlach scolpisce spesso figure intere, Lehmbruck realizza più che altro teste e busti. Le opere di GEO sono così caratterizzate da una riduzione formale che qui e là ricorda l’“oggettività”, e al tempo stesso da un’espressività sottile, sensibile, partecipativa e bonaria. Un elemento su cui l'artista ritorna spesso sono i capelli, talvolta dipinti di nero. Scrive Georgette “… naturalmente l’essere umano ha i capelli, se però omettendoli si ottiene una migliore resa espressiva, più significativa, allora lo faccio… lo stesso vale per gli occhi: se l’individuo è rivolto alla propria interiorità, se la cosa migliore da fare per esprimere tutto questo è eliminare gli occhi, allora bisogna farlo”.
Non dimentichiamo che nell’arte di GEO il dominio della forma e l’espressione plastica, pur di importanza fondamentale, sono filtrati dalla sua profonda conoscenza della filosofia francese, tedesca e, con il passare degli anni, anche della filosofia, della letteratura e della teoria dell’arte italiane.
Un altro motivo affascinante, già presente negli anni Trenta, è la rappresentazione collettiva. Anche se una nota a questo riguardo appare per la prima volta nel diario del 1950, il tema era già attuale in precedenza: “… spesso mi stimola anche la disposizione collettiva, come nei ‘profughi’, negli ‘spettatori teatrali’, poi in coloro che ‘uccidono i draghi’. Ora ho in mente questo: dietro a una barriera tutta teste e braccia, gente che guarda una partita di calcio: tifo: anche la ‘ragazza sul palco’ e la ‘ragazza alla finestra’ erano un accenno in questo senso = il parallelismo del gesto con un’espressività sempre nuova”. A questo scopo ricorre alla forma base del tronco, lavorato a bulino e martello in modo da dare spazio alle varie teste o una moltitudine di mezze figure, raffigurate a tutto tondo oppure solo per 2/3. di tre quarti.
Questo sparuto gruppo di sculture rappresenta anche una sorta di ponte con il lavoro sui burattini, che Georgette porta avanti contemporaneamente8. La relazione con i burattini si manifesta nella presenza di teste più piccole qua e là, poste fra loro in un dialogo formale altamente espressivo.
Nella lettura dei diari colpisce l“accanimento” con il quale l’artista lavora allo sviluppo delle sculture, l’autocritica per i risultati insoddisfacenti, il tentativo di farsi coraggio ricorrendo alla scrittura, l’elogio della lentezza, il desiderio di vedere un’evoluzione nell’avanzamento del lavoro. Con i burattini procede con più gusto e leggerezza, giacché questi sono “a misura d’uomo” e non rivendicano alcun tipo di trascendenza. Il 10 novembre 1937 scrive: “… dopo un lungo periodo ho fatto di nuovo teste di burattini – in nessun modo formalmente codificate, simili a una gradevole curva – nulla più di vistoso, perché tutto ciò che è eccentrico ci fa sentire estranei e ci lascia insensibili… solo piccole asimmetrie… che creano un effetto più vivace … non particolarmente divertente, non meramente serio… ma tutto si intreccia… soprattutto nell’abbigliamento in maniera più naturale… una volta finiti mi richiamano a sé con tale impeto, che devo continuamente andare a guardarli”.
Sulla convergenza tra sculture e burattini troviamo anche questa illuminante annotazione del 20 luglio 1937 sul ruolo della bocca: “… la parte più mobile del nostro volto. In questa zona rimangono impresse le tracce di ciò di cui abbiamo parlato (e quindi di ciò che abbiamo pensato), le rughe del riso, il gusto per il cibo, gli atteggiamenti aggressivi (che sono solo una forma di difesa), ecc. Anche l’amarezza aleggia intorno alla bocca. Come la fiacchezza, la determinazione, la sicurezza, ecc.”. In effetti, esaminare i vari trattamento della bocca nell’opera di GEO è molto istruttivo… e anche divertente.
Gli anni Trenta sono un periodo fruttuoso sotto ogni punto di vista. Tra i fattori positivi va senz’altro annoverato il fatto che Georgette trova diversi canali commerciali per la diffusione delle sue opere. Al tempo stesso, i problemi – soprattutto in relazione alla questione di genere – non mancano. Non è difficile immaginare quante difficoltà incontrasse una donna che tentava di farsi riconoscere come artista – scultrice per di più – senza il sostegno di un uomo. Si pensi solo al fatto, che fino al 1972 la Società degli artisti (GSMBA, l’attuale Visarte) non accettava donne! Un sostegno da parte della Società delle artiste (GSBK, oggi SGBK) non era pensabile, dato che nessuna sezione era presente in Ticino8a. Nella zona di Lugano il Lyceum-Club, cui GEO appartiene, suppliva a questa mancanza: è qui che Georgette stabilisce la sua rete di contatti, ha la possibilità di esporre le proprie opere – da sola o insieme ad altre artiste ticinesi – e di fare qualche spettacolo di burattini. Non si può certamente dire che il mondo dell’arte ticinese, in prevalenza maschile, le dimostri un grande interesse. I negozi di artigianato9 erano un’alternativa non disprezzabile, ma nessuno aveva la sensibilità adatta a riconoscere le ambizioni e le visioni di Georgette Klein, per cui le sue opere non vennero mai propriamente riconosciute come “arte”, bensì come prodotti di artigianato10. Del resto, il suo nome non compare nei cataloghi o nelle enciclopedie dell’arte11: questa è una delle ragioni per cui gli acquirenti – o i loro discendenti – non hanno alcuna consapevolezza del valore delle sue opere. E questo spiega anche il motivo per cui in molti casi la loro ubicazione ci è ignota. Il fatto che Georgette Klein firmasse spesso solo con la sigla GK, talvolta aggiungendo solo l’anno, complica ulteriormente la ricerca delle opere.
Ai negozi GEO proponeva non solo presepi, “madri con bambini”, teste, busti e “spettatori”, ma anche una varietà di burattini o figure intere simili, talvolta dipinte e con mani e teste mobili (altezza: 25/30 cm). Facevano parte dell’offerta anche i giocattoli – spesso animali di legno, che potevano inaspettatamente tramutarsi in “mostri”. Infine vi erano i lavori tessili: morbidi pupazzi, stoffe, tovaglie, arazzi, forse anche abiti e altro ancora12.
Se la ricostruzione del lavoro e dell’evoluzione artistica di Georgette fino al 1940 è stata in parte possibile grazie ai pochi originali rimasti e alle molte testimonianze fotografiche, dopo questa data diventa molto più difficile tracciarne il percorso, soprattutto a causa dell’esaurirsi delle foto. Il motivo di questa assenza non è chiaro, tanto più che la varietà dei disegni – soprattutto studi di corpi – risalenti al 1940 circa non lascia presupporre l’insorgere di una depressione. A questo riguardo vanno menzionati i cinquantatré disegni di nudo che ritraggono Luigi Tentori, eseguiti tra il 1936 e il 1943, e la serie di disegni dal carattere spiccatamente sensuale, realizzati nell’estate del 1942, per cui fece da modella una sua amica. La mancanza di documentazione fotografica spiega anche perché sappiamo così poco dei suoi lavori figurativi in argilla. Nel diario si trovano continuamente paragoni fra il lavoro “meno definitivo” in argilla e il legno, che esige di essere continuamente “toccato”, ma purtroppo i documenti scarseggiano.
Stando alla corrispondenza con l’atelier Geiger-Wörner si trattava di figure, rilievi, vasi e altri oggetti. Sono invece giunte fino a noi numerose piccole teste d’argilla cruda, finora interpretate come “schizzi” di burattini. Un’analisi più approfondita mostra però che la loro qualità è spesso tale, che appare più corretto parlare di studi; non si tratta infatti di opere vere e proprie, visto che la loro forma diventa visibile solo prendendole in mano.
Alcune fotografie degli anni Quaranta mostrano dei burattini sul vano della finestra della casa di Sciaredo oppure con la burattinaia in azione. Ciò non stupisce, visto che in quel periodo, grazie all’amicizia con la burattinaia e critica teatrale Olga Gloor (vedi Hana Ribi), Georgette svolge un’intensa attività teatrale e realizza parecchi burattini in cui la scultura converge col lavoro tessile. Nella biblioteca e negli articoli di giornale da lei conservati si trovano indizi di un intenso studio delle maschere, in particolare quelle antiche13. Nel lascito conservato presso gli AARDT si trovano anche pièce teatrali destinati alle rappresentazioni, poste in stretto rapporto con i caratteri dei burattini.
Contemporaneamente emerge un’intensa attività letteraria, testimoniata tra l’altro da una serie di poesie del 1944, giunte fino a noi in forma di raccolta. Esse sono una reazione alle notizie sulla guerra che si fanno sempre più dettagliate: “alourdis… alourdis par le morts… qui treînent sur les champs de bataille… nous vivons… abasourdis par le plaintes… qui viennent des plaines sanglantes…nous écoutons… les yeux ouverts sur le spectacle… du monde déchu… nous regardons”.
Per quel che riguarda l’attività di scultrice, si presume che Georgette abbia continuato a seguire la linea sviluppata negli anni Trenta, ma che abbia iniziato a tentare anche rappresentazioni più complesse. Una figura del 1939, con le spalle e le braccia lavorate in maniera particolarmente efficace, mostra come l’artista stesse accrescendo l’espressività delle sue sculture. Un altro pezzo non datato – probabilmente risalente allo stesso periodo – in cui la testa poggia su un braccio simile a un serpente, che sembra fuoriuscire da un calice di forma vegetale, è indice dell’elaborazione di nuovi temi.
Dal punto di vista teorico, in quegli anni Georgette si confronta con un libro allora molto controverso, pubblicato nel 1948: Verlust der Mitte di Karl Sedlmayr, uno scritto di critica culturale con una forte impronta conservatrice. Scrive l’autore: “Lo spostamento del centro di gravità dello spirito umano verso l’inorganico… è un danno cosmico… un’atrofia di quegli organi e di quelle capacità spirituali a cui corrispondono la vita organica e quella dello spirito”. Dalla quantità di sottolineature presenti nel libro si deduce che l’artista fosse almeno in parte della stessa opinione.
Forse la Testa di Giano risalente al 1950 circa, opera di alto valore artistico, esprime proprio questa visione del mondo e della cultura. In quest’opera, Georgette elabora la forma del doppio volto, connotato non tanto dall’espressività quanto piuttosto da un atteggiamento pensoso; questa scultura, non più vincolata alla parte posteriore, è libera nello spazio, adempiendo così all’esigenza di un plasticismo a tutto tondo.
Nel 1954 una lettera sorprendente giunge a Barbengo: si tratta della richiesta di un arazzo per lo scalone della Scuola industriale femminile della città di Winterthur. Nel diario Georgette commenta così l’invito a partecipare al concorso: “… e sorridendo dico a me stessa: per fortuna non sei morta prima di ricevere l’incarico per la parete (che poi ancora non ho)”. Per più di sei mesi l’artista lavorerà intensamente all’elaborazione di possibili motivi per l’arazzo, prendendo in esame le condizioni tecniche di fattibilità. Fra le righe si percepisce che la commessa di un arazzo di tale dimensione supera i suoi limiti (e quelli del suo telaio). Nel diario Georgette non parla mai di un rifiuto, ma una nota del 2 giugno 1951, dove scrive di aver ricominciato a tessere da cinque mesi, manifesta indirettamente una certa delusione. Il rifiuto è tuttavia comprensibile: a Winterthur non avevano la minima idea di che cosa l’artista stesse facendo in quel periodo e si aspettavano probabilmente un progetto simile ai lavori tessili degli anni Venti. Il progetto figurativo e tradizionale che lei invece consegnò, non corrispondeva minimamente alle aspettative e nemmeno allo spirito del tempo. Nel 1953 scrive: “J’avoue, le textile ne m’émeut plus”.
A causa della malattia del marito, i primi anni Cinquanta sono un periodo molto difficile per Georgette: l’artista continua a lavorare ininterrottamente, ma un’evoluzione rimane praticamente impossibile. Malgrado ciò, in occasione del suo sessantesimo compleanno diversi giornali le dedicano commenti benevoli. In un articolo di Elisabeth Kägi apparso sullo “Schweizer Frauenblatt” del 31 luglio 1953 si legge: “ Le sue teste e figure sono pensate dall’interno verso l’esterno – la superficie sottile somiglia a una pellicola delicata e vulnerabile, nella quale il movimento interiore si arresta”.
Dopo la morte di Luigi Tentori nel 1955 l’artista ritrova un certo slancio: a livello personale si sente liberata da un pesante fardello e sul piano socio-culturale gli anni Cinquanta danno motivo di sperare in un futuro migliore. Tramite i canali abituali, Georgette riesce a vendere più lavori che mai; soprattutto da Biel arrivavano molti apprezzamenti: “Abbiamo venduto i suoi presepi ancor prima che arrivassero e ne vorremmo di più”. L’artista riprende anche l’attività espositiva – i sei burattini conservati oggi al Landesmuseum di Karlsruhe furono acquistati nel 1962 proprio in occasione di una mostra. Anche se le sue opere non raggiungono mai quotazioni molto alte, Georgette si dedica alla scultura con rinnovato entusiasmo. L’intensa lettura delle opere di C.G. Jung e il confronto sempre più approfondito con il buddhismo, la liberano dalle costrizioni interne e le permettono di acquisire una visione in grado di collegare il pensiero occidentale e quello orientale. Grazie a questa nuova visione, che va oltre la sfera personale, l’artista riesce a dare espressione alle forze della crescita e ai simboli interiori della femminilità. Le sue ultime sculture astratte emanano una pace e una naturalezza mai vista prima. Nei diari GEO si chiede perché sia dovuta diventare così vecchia per trovare il proprio linguaggio, e si rallegra del fiume del divenire.
Eppure quest’ultimo periodo della sua vita non è privo di una dimensione tragica. La malattia di Luigi Tentori aveva causato la quasi totale interruzione delle sue modeste attività nella zona di Lugano; il rilancio personale andava così di pari passo con una situazione di crescente isolamento sulla “collina d’oro”. Inoltre, non ci fu nessun riconoscimento tardivo, né si parlò mai di dedicarle una retrospettiva. Paradossalmente, questa situazione è andata a vantaggio dei posteri, che oggi possono disporre in pratica di tutte le sculture eseguite da Georgette Tentori-Klein negli ultimi anni di vita.
Testo: Annelise Zwez Critica d'arte
[questa nota l’ho già aggiunta nel file di note precedentemente inviato]
8a Die Tessiner Künstlerinnen waren formell der Zürcher Sektion der GSBK zugeordnet, doch nur wenige im Tessin lebende Künstlerinnen machten davon Gebrauch, zum Beispiel Anna Baumann-Kienast, Regina Canti, Anny Bodmer, Maria Geroe-Tobler, später auch Rosalda Gilardi u.a.m. Da GEO Mitglied des Werkbundes, Sektion Winterthur war, machte eine solche Mitgliedschaft für sie offenbar wenig Sinn.